Premessa

Valstagna (VI) Località di confine col Tirolo austriaco. Il Leone ha chiuso il Vangelo ed impugna la spada. Monito per tutti.


Discutere sul vero significato da dare al termine Giacobino quando si parli dei nostri antenati che in qualsiasi modo si trovarono ad appoggiare la presenza dei Francesi in Italia all'epoca delle campagne di Bonaparte (1796/97),sembra ormai fuori luogo.

Assumere infatti tale termine nel suo autentico, originario, significato letterale, quello cioè che ebbe al tempo della Rivoluzione a Parigi, significherebbe dimenticare che gli echi dei fatti di Francia giunsero, all'epoca, presso di noi, in modo e con mezzi tali da qualificare inevitabilmente con tale appellativo, chiunque, a qualsiasi titolo, approvasse i Francesi.

Né giova ulteriormente, per nostra miglior comprensione degli avvenimenti chiedersi se il tale era veramente un Giacobino: le sfumature delle opinioni pur in un contesto largamente comune, sono appannaggio di una democrazia abitudinariamente esercitata; le correnti nei partiti
politici nascono e fioriscono infatti quando il potere viene gestito in situazioni ordinarie e non nell'emergenza.
In situazioni straordinarie importa solo ciò che conduce allo scopo.
Chi parteggiava per i Francesi e la loro rivoluzione era nell'opinione generale, comunque un Giacobino.

Ciò non nega affatto l'esistenza di opinioni anche profondamente polemiche tra i protagonisti della Rivoluzione in Vicenza - ché infatti proprio di essa intendiamo argomentare - ma rivendica nel contempo la validità storica dell' appellativo Giacobino in quanto termine comunemente e correntemente riconosciuto da tutti, quasi sempre soltanto nel suo significato più ampio.
E quindi valido anche per noi.

Nello stesso modo, del resto, il fascismo chiamava comunista qualsiasi oppositore di matrice democratica ed ancor oggi È noto che da talune sinistre viene spesso tacciato di fascismo chi non condivida certe tesi marxiste.
Per noi, in questo tentativo di narrazione, la parola Giacobino sarà intesa - ove non chiarito diversamente - nel suo significato piu' estensivo e non staremo quindi a darne ulteriori chiarimenti in chiave ideologica.
Chiameremo quindi Giacobini tutti coloro che furono comunque collaborazionisti dei Francesi e di Bonaparte.

Cio' posto, riescono opportune anche altre considerazioni.

Una prima potrebbe essere il notare come, dalle fonti vicentine manoscritte contemporanee dell'epoca - tranne ovviamente le rarissime Giacobine - traspaiano sulle Armate Francesi giudizi pesantissimamente negativi.

La stessa Ottavia Negri Velo, reputata da taluni storici addirittura filogiacobina, - sulla scorta delle informazioni (pettegolezzi da caffè) che i confidenti veneti facevano all'Inquisizione di Stato - è ben lungi dall'esserlo quando si accinge a scrivere il suo Giornale, come del resto vedremo. E questo, proprio perché dire giacobino, francese, anticristo, terrorista, demonio e barbaro assassino, nella Vicenza del 1797, è proprio dire la stessa cosa.
Il fatto è che gli otto anni trascorsi in Francia dal 1789, per Vicenza erano trascorsi quasi inosservati. Sì, quella mostruosa,terribile parola - RIVOLUZIONE - era stata scritta molte volte sulle gazzette che filtravano attraverso le ormai sfilacciate maglie della censura veneta, ma riguardava - per fortuna - notizie di cose lontanissime nel tempo e nello spazio.
Quando poi arrivarono, fuggiaschi, i prelati e i nobili francesi, si udirono nei salotti racconti di atrocità inaudite: la Repubblica di Francia nasceva in un parto laboriosissimo di Terrore e di sangue.
Ormai laggiù non esisteva più alcun valore: bene e il male erano miscelati, come il metallo e la scoria in un crogiolo non ancor a temperatura, e anche quando nel Termidoro cadde la testa di Robespierre, l'Europa tutta, emesso un primo lieto, ma ingannevole sospiro di sollievo cominciò a capire pian piano che la Repubblica nata dal bagno di sangue era invece sempre più vigorosa : ma poiché essa era l'incarnazione del Male, n'ebbe paura più che mai.
In Vicenza non ci si abituava ancora all'idea d'un popolo sovrano.

A nulla valsero i più moderati governi direttoriali susseguitisi durante gli anni seguenti: 1794-95-96.
Il solo continuar la guerra di Robespierre contro le Dinastie li squalificava e permaneva ormai in ogni opinione benpensante un unico giudizio: la Francia è l'Anticristo. Ovvio quindi che anche Ottavia vedesse con trepidazione l'appressarsi del nemico Bonaparte.
Soltanto anni dopo, quando l'Ordine imperiale riattiverà la nuova vita civile, Ottavia plaudirà a Napoleone.

Del resto l'equivoco sul termine giacobino - ed è questa un'altra utile considerazione - dura da sempre, ed è sempre servito in grandi occasioni storiche a bollare d'un marchio d'infamia, istanze di progresso civile e sociale, come per la prima volta infatti furono bollati di tal marchio i protagonisti Giacobini del 1797 anche a Vicenza.

- Briganti !

Tutto ciò servì egregiamente a far dimenticare che le origini dello stato sociale moderno furono gettate proprio in quei mesi, proprio da un pugno di Giacobini d'assalto, sia pur d'ogni risma, che non ebbe il timore di bruciarsi in un tentativo - proprio assurdo? - di rinnovamento ad ogni costo.
Cominciò lo stesso Napoleone Imperatore a stendere un velo sul significato - per noi italiani -della prima sua Campagna.
Quando egli cadde, non parve vero accomunare - lui despota - al Giacobinismo, e la demonizzazione generale proseguì per oltre un secolo in tutta Europa.
Ancor oggi nella stessa Francia, nelle scuole, - abbiamo interrogato a tal proposito alcuni studenti francesi delle superiori - non sembra si parli molto volentieri dei Giacobini: segno evidente che tutt'ora è in atto la rimozione del tabù e si preferisce studiare più a fondo il periodo Imperiale, il periodo della grandeur sorvolando velocemente i primi anni della Rivoluzione.

Una terza considerazione che riteniamo degna di nota trae infine origine proprio da quanto detto sopra :
- Perché questo brevissimo,ma importantissimo periodo storico è stato studiato così poco ?
- Perché dopo duecent'anni non si sono sviscerate ancora certe fonti ?
- Non sarà che l'equivoca opinione sul Risorgimento, dominante da sempre nella nostra cultura di stato nazionale, abbia preferito far dimenticare
il repubblicanesimo, l'egualitarismo, la fraternità, la laicità dello stato, in una parola: i valori essenziali dei Giacobini ?

La ragione del presente tentativo scaturisce appunto da questi dubbi.

Ottavia Negri Velo è la nostra fonte preferenziale.
Essa non potrà certamente fornire tutte le risposte alle nostre curiosità, ma i suoi scritti costituiscono una sorgente di prima mano che crediamo trascurata a torto, finora. Non che fosse sconosciuta del tutto.

Gli studiosi di questo periodo, certamente l'hanno letta tutti - o talvolta hanno tratto notizie dai suoi recensori postumi, - ma resta comunque il fatto che fino ad oggi (1989) nessuno ha mai veduto l'opportunità di pubblicare uno dei pochi testi esistenti sull'argomento .
Si dirà : - Il linguaggio di quei tempi È un linguaggio monotono, pedante, ed è difficile farlo digerire ai nostri giorni .
In molti casi è senz'altro vero, tuttavia qui si tratta di uno dei rari documenti che ci restano di un'epoca travagliata, brevissima, ma non per questo storicamente meno importante di altre; qui si tratta addirittura di UNA RIVOLUZIONE A VICENZA !

Certamente al momento della scelta fummo perplessi.

Esiste infatti anche un'altra poderosa ed inedita fonte di notizie, ed à la monumentale opera di Tornieri Arnaldi Arnaldo I, certamente più minuziosa e colta (che indichiamo ai più volonterosi). Fummo incerti per un po' di tempo (e ci ricordammo dell'asino di Buridano).
Un lavoro anche solo parziale sull'opera del Tornieri appariva troppo oneroso per forze molto modeste: il percorrere una strada sterminata di argomentazioni, irta di difficoltà interpretative, lunga al procedere , disperdentesi in infinite straduzze laterali, divaganti a loro volta in numerosissimi viottoli di idee e considerazioni le più disparate, se ci colmava di ammirazione per la mostruosa erudizione di quel longevo (ormai sopravvissuto a sé stesso ) ci spingeva a cercare un cammino forse un po' meno arduo.

Sopra ogni altra considerazione, però giocò un ruolo fondamentale la fortissima carica di intolleranza reazionaria di cui sono pervasi gli scritti del Tornieri, personaggio dalla vita e dai detti per altro esemplari: uno di quei cristiani tutti d'un pezzo, d'un integralismo così assoluto - non soltanto allora reputato autenticamente cristiano - che, chiedo scusa, non mi poteva riuscire simpatico.
Oggi non si riesce proprio a capire come lui, studiosissimo delle scienze naturali, e quindi empiriche, che ricercava sul posto fossili, reperti archeologici, che s'interessava alla geologia, oltre che alle lettere; lui che conosceva greco e latino a menadito ed aveva letto montagne di classici antichi e filosofi moderni, compresi quelli proibiti dall'Indice, (per cui era prevista una speciale dispensa rilasciata dal Vescovo, e - conoscendo l'uomo - non dubitiamo che l'Arnaldo non ne fosse fornito), libri di tutti i generi vogliamo dire, non ci spieghiamo tuttavia, com'egli non avesse almeno un qualche dubbio sul divenire del mondo (anche nei fatti politici e sociali), e fosse profondamente convinto, in perfetta buona fede ed umiltà (a suo modo), d'essere sempre dalla parte della ragione.

In breve : le sue certezze ci sembravano irreali e fuori epoca,anche nel 1700.
Figuramoci oggi !

Preferimmo Ottavia che rimane la nostra fonte preferenziale.
Non che non ci si rendesse conto delle difficoltà anche di questa scelta, ma almeno sembrava consolarci di tanto in tanto, in Lei, una visione molto più umana della vita e degli avvenimenti ed inoltre delle osservazioni piene di femminile buon senso, che davano il coraggio per proseguire, anche nella marea di lamentazioni , per altro spiegabili dalla sua educazione aristocratica e soprattutto dalle paurose perdite economiche che dovette subire a causa del nuovo sistema.

Certamente per avere una panoramica più completa possibile degli avvenimenti di cui si tratterà, si dovrebbe riuscire ad organizzare in un vasto quadro sinottico le varie notizie riportate dai vari autori i quali talvolta non sono perfettamente concordi in taluni dettagli non essenziali.
La qual cosa non sembra né semplice né rapida.

Ci contenteremo di tenere presenti soltanto poche altre fonti in originale, almeno là dove sono opportune conferme o smentite al dire di Ottavia.
Talvolta infatti, e soprattutto per i periodi ancor poco studiati capita di leggere ricostruzioni storiografiche - piene per altro di riferimenti bibliografici - che sono soprattutto recensioni su studi di altra mano, presi sempre per buoni. Quando poi si va a vedere la fonte originale ci si accorge che la notizia non è esatta o l'interpretazione è stiracchiata.
A volte si nota, poi come da scarne relazioni nemmeno contemporanee l'importanza di taluni personaggi, di citazione in citazione riesca ingigantita oltre misura.

Nel nostro caso costituisce un freno notevole, non lo nega nessuno, la mancanza di notizie su varie persone citate da Ottavia col solo nome o addirittura con diminutivi, d'altra parte quando le vicende pubbliche sono strettamente legate alle private non È detto che i protagonisti sentano sempre il bisogno o l'opportunità di lasciarne traccia scritta.
Buon per noi che alla fine del '700 era comunque dilagata la moda di scrivere.
Memorie di viaggi, cronache di storia locale, descrizioni di avvenimenti importanti: tipo il passaggio per Vicenza dell'Imperatore, - o la processione del Corpus Domini - con partecipazione di Vescovi e Prelati esteri. Proprio nel 1796 era morta quella Elisabetta Caminer Turra che rappresentava in Vicenza un alto esempio d'intraprendenza intellettuale femminile, come meglio vedremo, promuovendo quel tipo di letteratura moderna che si giovava dei più bei nomi locali ed esteri.
Ottavia Negri di Velo non era certamente una letterata del calibro della Caminer, tuttavia un minimo di emulazione la stimolava e la coscienza di vivere eventi irripetibili fece il resto.

Elisabetta Caminer Turra

Le sue sono cronache degli avvenimenti di tutti i giorni : beninteso di quei giorni, di cui Ella capì appieno l'importanza storica non soltanto per gli inusuali eventi materiali che viveva (occupazione militare straniera in un paese pacifico da secoli, con quel che ne seguiva di sacrifici economici ), ma anche - e noi diciamo soprattutto - per le conseguenze indotte dalla nascente filosofia borghese in campo socio-economico, una volta raggiunto il potere politico.
V'è una frase che sembra Le sia scivolata dalla penna, buttata là, quasi con una noncuranza forse non totalmente conscia della dolorosa crudezza del giudizio storico espresso:

- Tutto verrà ridotto a profitto.

Ella in qualche modo sentiva giunto il momento, dopo il quale ogni valore di autorità, di regole sociali, di istituzioni vigenti, stava per cedere il passo di fronte al danaro, di fronte al guadagno, di fronte al reddito, e lo stato borghese sarebbe subentrato allo stato antico inaugurando un nuovo gioco delle parti.
La realtà in cui da secoli si viveva a Vicenza, a Venezia, in tutto il loro mondo, con l'arrivo dei Francesi era destinata a scomparire.

Non più classi di fronte alla legge: non più privilegi alla Chiesa ed ai Nobili, o almeno così s'era tentati a credere.
In Francia questo enorme rivolgimento era stato realizzato fino in fondo - o almeno così si credeva - : Non v'era ragione che non dovesse succedere anche in Italia.

Il Tornieri spesso si lascia andare al rimpianto del buon tempo antico con una frase che stride un po' , se pensiamo all'acrimonia nascosta dei Vicentini per i Veneziani:

- I buoni Veneti non tornan più.

In Ottavia nulla di tutto questo.
In Ottavia non ci sono eccessivi rimpianti se non per quello stato generale di tranquillità Veneta che s'era tradotto in una secolare pace per gli abitanti della Serenissima e dei Territori Sudditi.

Da secoli il Leone di S. Marco andava ritirandosi dal Levante; respinto dagl'imperialismi musulmani ed europei; compresso tra le grandi nazioni dinastiche; distrutto dai traffici oceanici che ad opera di Inglesi, Spagnoli, Olandesi lo avevano spiazzato dalla leadership dei mari.
Buon per lui che da tempo aveva investito in Terraferma i guadagni ingenti che i commerci mediterranei gli avevano procurato in passato. S'era quindi interessato all'agricoltura che gli garantiva l'autosufficienza alimentare, costellando la Terraferma di ville-fattorie.
Ovviamente i Nobili dei Territori avevano imitato quelle ville, ma alla fine del settecento questi status symbols si potevano mantenere ormai solo a costi insostenibili.
I patrimoni terrieri aviti sfumavano ormai evanescendo come nebbie consumate dall'aurora, e la capacità imprenditoriale dei nuovi ricchi - i borghesi emergenti - riusciva ad impossessarsene con sempre maggiore frequenza.
Spesso ove non accadeva questo cominciava il degrado, tanto che la stessa Rotonda di Palladio, è chiamata da Ottavia: tetra dimora.

Dal punto di vista tecnico è necessario chiarire che Ottavia nel suo Giornale cita il nome del mese soltanto il primo giorno di ciascuno, mentre nei giorni successivi scrive semplicemente : D.to ossia Detto. Così scrive Primo di Maggio, ma 2 d.to.
Noi, per una praticità maggiore, abbiamo preferito scrivere la data di ogni giorno per esteso.

A ciò si deve aggiungere il fatto che la letteratura cronachistica non si coniuga facilmente ad un'attività politico-rivoluzionaria: dove gli avvenimenti premono e la vicenda umana individuale si fa tutt'uno con la speranza di una grande trasformazione collettiva, c' è poco tempo per l' esercitazione letteraria. Ad essa si dedicano più volentieri i Nobili nel chiuso sicuro dei loro palazzi; essa diviene spesso il luogo dei risentimenti, dei livori e delle nostalgie di un'intero mondo che si avvicina sempre più in fretta al crollo definitivo.

Non c' è perciò da stupirsi se la nostra cultura abbia da sempre ignorato quanto accadde durante la prima campagna di Bonaparte all'interno delle Municipalità italiane: si osserva infatti una rimozione quasi totale già a partire dai libri di scuola.
La tradizione infatti accredita normalmente l'idea che il giovanissimo Generale al fine di battere l'Austria nel più breve tempo possibile e di ottenere la pace conquistando alla Francia la frontiera del Reno, abbia offerto Venezia come merce di scambio diplomatico.
Ed è vero, quanto ai fatti.

Tale tradizione tace invece del tutto il significato storico di quei brevissimi mesi.

Noi tutti "ricordiamo" Napoleone come genio pacificatore che riunisce l' Italia nel Regno Italico e riordina l'Europa tutta. La sua caduta ci ha forse destato postumo compianto con tutte le retoriche domande sull'autenticità della sua gloria (di manzoniana memoria).
Nei libri di storia si parla sempre di Napoleone, poco di Bonaparte.
Sempre secondo questa tradizione, la tirannide austriaca oppresse l'Italia per i lunghi decenni seguenti finché l'Epopea del Risorgimento celebrò le Glorie Patrie nelle guerre d'indipendenza, fino all'apoteosi della prima guerra mondiale, considerata l'ultima guerra Risorgimentale, l'ultima guerra per l'Unità d'Italia.
Né vale asserire che gli storiografi moderni hanno una volta per tutte ridimensionato questo aspetto della Storia Monumentale: essi non sono in grado di mutare il tradizionalismo culturale del popolo, che non legge i loro libri; né d'altronde sono essi in grado di mutare le retoriche del Potere che sfrutta fin dai libri di scuola, quali miti, proprio tali convinzioni popolari.

Le lotte, le speranze, i disinganni di quella generazione bollata come Giacobina, che spesso con autentico disinteresse aveva scommesso sulla nascita di una società inter pares, tutto, tutto è stato rimosso dalla memoria collettiva.
Per i Giacobini di casa nostra tale rimozione cominciò - naturalmente a loro insaputa - proprio ad opera di colui ch'essi stavano per accogliere a braccia aperte.
Il "dio della guerra" , il "Liberatore" non aveva infatti nessuna intenzione di mutare radicalmente gli ordinamenti sociali della Serenissima.
E ben presto avrebbe sconfessato brutalmente, e più volte, l'opera delle Municipalità Giacobine.
L'intenzione di Bonaparte di mantenere gli equilibri politici e sociali uguali a sé stessi era talmente nota presso l'Armata francese che egli talvolta si fece scavalcare a sinistra dai suoi stessi generali.

È infatti accreditata l'ipotesi che La Hoz, comandante la colonna Cispadana che occupò per prima Vicenza, incitasse segretamente i filo-francesi nostrani per dare un indirizzo più radicale al cambiamento di governo della Città, nel tentativo di porre Bonaparte ed il Governo Francese di fronte al fatto compiuto.
Cosa che comunque Bonaparte ricondusse presto nell'alveo dell' "Ordine" con la creazione d'imperio del Governo Centrale dissolvendo così il potere delle Municipalità provvisorie e la loro Democrazia Giacobina.

Stupisce comunque che quei pochi uomini fossero i più accesi e determinati nel superare gli ostacoli che incontravano lungo la via al Bene comune.

Che cosa prevalse in loro?
Probabilmente anche qualcosa di meno comprensibile in soli termini di interesse economico e cioè l'Idea della sfida all'oscurantismo conservatore, per il Trionfo "Illuminato" della Verità, di quell'immaginario di Libertà che essi avevano ereditato dalla generazione precedente, quella dei "philosophes", e sul quale avevano fondato il loro universo di valori.
Una sfida, dunque, simbolica.

Davano tutto, ma volevano tutto.

Scriveva il Lamberti da Ferrara, il 29 dicembre 1814, quando ormai era tutto finito, a Sebastiano Bologna:

..certamente né voi né io né molti altri si sono arricchiti con le cariche lucrose ed onorifiche che abbiamo coperto nel passato Governo. Voi avendo anche più da perdere, avete perduto anche più di me...

In un'altra lettera allo stesso, il 15 dicembre aveva affermato:

...Sì certamente che posso vantarmi di essere disingannato anch'io da quelle illusioni che ci abbagliarono per qualche momento, ma non abbatterono giammai, il senso innato del giusto, dell'onesto, del vero. Il nostro cuore, più sollecito del bene altrui che del proprio, s'immaginò da principio che Istituzioni Liberali potessero giovare al miglioramento della civile società, ma i pseudoapostoli che le stabilirono, e l'uomo straordinario che le sanzionò, più con le armi che con la persuasione, tradirono crudelmente le speranze di tutti...e rivolsero a loro pro e a danno comune ciò che erasi proclamato per universale vantaggio...

Basta questa accorata confessione, io credo, a darci un'idea di quanto grande sia stata la definitiva delusione dei Giacobini italiani.
Ma troveremo anche colui che, troppo compromesso coi Francesi o forse all'estremo dello sconforto adulerà l' Austriaco nuovo padrone cercando di darsi una nuova ragione di comportamento; è questo il caso di uno dei nostri protagonisti principali: Enrico Bissari.
Francesco Testa, suo compagno di lotte non gli perdonò davvero il nuovo vergognoso atteggiamento se scrisse satiricamente: -

Ti si un mona, Bissaro, sì, per dia
Se te cerchi nasconderti drio un deo
Che quel che ti ghé no xe za un neo ,
Ma un viso sì da Publican, da spia .

Ghe vol altro che Malta e Poesia
Ghe vol altro che occi d'Asmodeo
Per covrir la sinderesi d'un reo
E d'un ingrato la fisonomia .

I Nobili col Popol Visentin
D'accordo per premiar la to malizia
I gà pensà regalarte un' abitin .

El dritto xe da furbo e da briccon
Recami de superbia e de avarizia
E la fodra da matto e da buffon.

Queste confessioni in rima o in prosa - e ce ne sono altre - ci mostrano molto bene la coscienza che i Giacobini ebbero del loro fallimento .
Probabilmente derivava proprio dal loro intellettualismo un'estrema fiducia nella Ragione dell'uomo, che trascurando spesso gl'interessi immediati, reali, dei ceti popolari per guardare unicamente al bene comune, produceva attorno a loro dissenso ed isolamento.
Ovvio fu quindi l'insuccesso.

L'Aristocrazia subiva ingenti requisizioni e non contava più nulla nel gioco del potere: il Clero vedeva Bonaparte come l'Anticristo; il Popolo, era assente, inerte nella sua ignoranza.
Solo per la Borghesia, quei tempi ebbero dovunque un significato storico positivo, ma molti dei suoi esponenti non lo capirono e, pavidi ed ignavi, si rinchiusero per lo più, nei gusci dorati dei loro traffici.
Pochissimi si gettarono nella mischia.
Il tentativo dei Giacobini ci riesce quindi onorevole proprio per la sua assurdità, la sua gratuità, il suo porsi in opposizione a tutto e a tutti.

Per ridisegnare questa microstoria sconosciuta ai più, si sono seguite le tracce di un nome che compariva spesso nei documenti rimasti a dormire per quasi duecent'anni negli immensi archivi cittadini: Bissari.
Esso si ripeteva troppo spesso, in troppo frequenti e disparate occasioni, tanto che ad un certo punto sembrò come il filo d'Arianna che mostrava la via da seguirsi per tracciare il racconto.
Nel nome Bissari si sono voluti identificare - non proprio a sproposito – i Giacobini di Vicenza. Anche nel voltagabbana Enrico preferiamo riconoscere lo sfascio della disillusione davanti al crollo degl'ideali, piuttosto che il mero gretto opportunismo. Certamente i Bissari non sono il meglio del Giacobinismo vicentino e chi volesse farne dei campioni storici sarebbe completamente fuori strada.
Piuttosto, ciò che nelle loro vicende ci sembra emblematico è proprio l'atteggiamento di chi si getta nella competizione senza pensare alle conseguenze, atteggiamento significativo, frutto dell' improvvisazione che, come vedremo, sarà già a quel tempo e per altri motivi, loro rimproverata dall'Abate Velo.

Questo lavoro non ha quindi alcuna pretesa di porsi come storiografico, quanto piuttosto come sunto di cronache varie, essendo appunto cronaca, storia, saggio, racconto tutt'assieme, ed il suo proposito è soltanto quello di spolverare dall'oblio quegli avvenimenti di casa nostra di fine '700, e perché ormai sembra più gradita che in passato la conoscenza delle storie locali in tutt'uno con la grande storia, ma ancor più, per sottolineare che furono "quelle " persone e non altri; "quei pochi mesi " e non gli anni imperiali o risorgimentali successivi, che gettarono da noi come in tutt'Europa, il seme della speranza di una nuova organizzazione sociale, mirando alla libertà, alla fraternità, all'uguaglianza.
Inoltre, oggi che anche in questo settore - della ricerca storica, vogliamo dire - si assiste ad un fervore di pregevolissime pubblicazioni estremamente specializzate in argomenti sempre più ristretti, e proprio per queste ragioni, non sempre adatte al grezzo palato del lettore medio (molto poco avvezzo a tali manicaretti), si è creduto opportuno, per rimanere nella metafora culinaria, offrire un piatto composito, alla buona, casereccio, in cui fosse presente un poco di tutto, buono per tutte le bocche, anche per le meno raffinate.

Da queste brevi considerazioni vorremmo insomma apparisse chiaramente l'unica intenzione di queste righe: portare a conoscenza del lettore non specialista ciò che è stato troppo a lungo "dimenticato".

Raccontare COSA E' SUCCESSO.

I fatti, i luoghi, le persone, ovviamente, non sono ne casuali ne inventati. La realtà è già di per sé così fantastica che non ha alcuna necessità d'esser aiutata dall'immaginazione; solo molto raramente si è intervenuti a collegare i fatti nel modo più verosimile suggerito dai documenti e quindi solo in queste parti infime si potrebbe parlare di invenzione.
D'altronde, talvolta le carte tacciono importanti circostanze che potrebbero garantire non solo la veridicità di alcuni avvenimenti, ma soprattutto l'esatta interpretazione di essi; talaltra il loro silenzio è invece voluto da chi già a quell'epoca era interessato a far perdere ogni traccia degli stessi documenti.
Anche qui la rimozione. Rimozione nelle vicende individuali e familiari: rimozione di ogni vergogna.

Talvolta una stessa Nemesi sembra incombere sul destino delle persone: ma tutto è la fedele cronaca degli avvenimenti. Si è voluta lasciare molto sovente la parola ai testi d'allora proprio perché fosse offerta la ormai insolita opportunità di cogliere il sapore - per noi troppo spesso inconsueto - della lingua antica, perfino nel pettegolezzo minuto.
Per questa ragione l'appendice è piuttosto corposa e chi vorrà leggerla vi troverà le spezie del tempo andato.
A questo punto non si può non riportare, e per prima, una delle rare voci popolane che ci restano, già nota e pubblicata in passato, ma troppo forte e decisa per non farla risuonare ancora.
E' quella di Bernardo Bocchese, popolano di Valdagno, assiduo di Gerolamo Festari, eminente medico, nonché amicissimo del Bologna che abbiamo già incontrato e, manco a dirlo,
giacobino.
Bocchese si lascia andace e sbotta come il coperchio di una pentola in ebollizione:


...Sua Ecc.N.H.Lodovico Manin, questo sono stato ultimo doge che abìa la Republica Veneziana.
L'è caduta dopo che la è durata quatordici secoli che fa anni 1400. E a Vicenza ultimo Podestà e Capitanio sono stato Gerolimo Barbaro: e adesso sono suditi come gli altri poveromini e avanti era Principi Veneti...
L'annotazione asettica del simpatico cronista, già scivolata nel giudizio egualitarista del Giacobino, passa all'invettiva:
...Siete deventati asini dopo che avivi il comando e adesso siete suditi. Portate la basta come pessi di porchi, pagate assai, tasete e andate anche soldati: chiapate bastonate sul culo come i poveri masati...

 

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